Il repertorio della Canzone Napoletana cosiddetta “Classica” si riferisce alla copiosa produzione musicale che prese luogo in Napoli tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Il periodo è anche denominato “periodo d’oro” della canzone napoletana, grazie al fermento musicale e culturale che caratterizzava la città.
Dal punto di vista strettamente musicale ci troviamo di fronte a composizioni in forma ‘canzone’, in lingua napoletana, caratterizzate dall’alternanza di strofa e ritornello. Il boom del repertorio, tra l’altro, è coinciso con lo sviluppo dell’industria musicale e con la nascita delle prime case editrici, sia nella città di Napoli che a livello nazionale e internazionale. L’editoria, insieme alle diverse declinazioni performative delle canzoni napoletane (Piedigrotte, salotti, cafè – chantant), ha favorito l’enorme diffusione di un repertorio che per la prima volta, considerato il contesto locale, ha soddisfatto sia i gusti della borghesia che quelli più popolari in città.
Questa trasversalità sociale si rifletteva anche negli autori e compositori di canzoni napoletane: poeti colti e poeti del popolo scrissero i versi più belli del repertorio, così come compositori del mondo classico e musicisti “ad orecchio” hanno dato vita a melodie senza tempo.
Di cosa parlano le canzoni napoletane? Parlano d’amore, ma parlano anche della città e della sua bellezza, dell’emigrazione, di vicende storiche e aneddoti più o meno leggendari legati alla città napoletana; si parla anche di “macchiette” e “sciantose”, personaggi “caratteristici” di una parte di produzione. Questa varietà tematica è la stessa che ha portato all’individuazione di sottogeneri del repertorio stesso.
E la musica? Ci sono tratti distintivi dal punto di vista musicale, rintracciabili in varie canzoni napoletane – per citarne due, la cosiddetta ‘sesta napoletana’ (espediente armonico) o il quarto grado alterato nella melodia – ma è altrettanto vero che alcuni brani che non riportano alcun espediente armonico o melodico “tipico” sono immediatamente riconosciuti come “napoletani”.
Quando inizia e “finisce” la produzione? Come ogni fenomeno culturale, è limitante e fuorviante identificare rigidi estremi cronologici. Nell’immaginario comune sono due brani che connotano un potenziale spartiacque rispetto alla precedente produzione musicale: Te voglio bene assaje (1835) e Funiculì Funiculà (1880). La canzone napoletana non “finisce”, si evolve. Renato Carosone nel 1956 scriveva e portava al successo (solo per citare una canzone) Tu vuò fa l’americano, non un “classico” in senso stretto, ma dopo 70 anni si tratta pur sempre di un pezzo (e una produzione) che parte dal periodo d’oro per rivoluzionarlo, portando a Napoli nuove sonorità e nuovi modi di comporre ed eseguire.
Le canzoni più rappresentative? Oltre alle già citate Funiculì Funiculà e Tu vuò fa l’americano, senza dubbio ‘O sole mio, canzone d’amore scritta dal compositore colto Eduardo Di Capua e dal poeta Giovanni Capurro, che deve il suo successo planetario, oltre che alla capacità divulgativa da parte dell’editore Bideri, anche all’esportazione del tenore Enrico Caruso insieme, qualche decennio dopo, con la versione It’s now or never di Elvis Presley.
Torna a Surriento, Maria Marì, Luna rossa, Anema e core sono solo alcuni dei titoli più famosi che hanno portato Napoli e l’Italia in giro per il mondo, alimentando il mito della bellezza dei luoghi dove sono nate queste canzoni. Sono anche alcuni dei titoli più rappresentativi di un vasto repertorio, ancora da scoprire tra spartiti e ricordi di una Napoli che fu.